giovedì 27 dicembre 2012

Una Coppia di Forze

Nel post "Sistemi in Equilibrio (meccanico)" abbiamo definito il momento meccanico di una forza, rispetto ad un punto fissato, come il prodotto vettoriale tra il vettore di posizione e la forza stessa: 
M=rxF 
dove indica il vettore di posizione della forza F rispetto ad un punto O fissato.

Inoltre abbiamo stabilito per definizione che "la direzione di M è perpendicolare al piano definito da F e da r; il verso, come garantito dalla regola della mano destra, è quello di un osservatore che vede ruotare F in senso antiorario" (vedi Wikipedia).
Nota: l'effetto del momento è proprio quello di produrre una rotazione intorno ad un punto di riferimento o asse (come l'apertura di una porta).

Perciò il modulo del momento, dato dal prodotto vettoriale rxF, è così definito:
M=rFsinθ
dove θ è l'angolo tra r e F come mostrato in figura:


Se si osserva che la distanza b (cioè la perpendicolare, tracciata dal punto O, alla linea di azione della forza F) è data da b=rsinθ possiamo riscrivere il modulo del momento meccanico:
M=Fb
quindi il modulo del momento di una forza è dato dal prodotto della forza per il suo braccio b.

Ma vediamo cosa accade per due forze F1 e F2. In questo caso il momento totale, calcolato rispetto ad uno stesso punto O, è dato dalla somma vettoriale:
M=r1xF1+r2xF2
dove r1 e r2 sono i vettori di posizione delle rispettive forze (rispetto ad O)*.

Se ora supponiamo che le due forze abbiano lo stesso modulo (cioè F1=F2=F), stessa direzione ma versi opposti (cioè sono parallele e giaciono sullo stesso piano), allora il modulo M è:
M=F1b1-F2b2=F(b1-b2)=Fb 
dove il segno meno è dovuto ai versi opposti dei momenti e dove b corrisponde alla distanza fra le linee di azione delle due forze (poiché b1 e b2 giaciono sulla retta perpendicolare alle due forze) ed è quindi indipendente dal punto O di riferimento.
Nota: se invece il punto di riferimento O fosse posto tra le due forze avremmo per la distanza b=b1+b2 (avendo i momenti ugual verso).

Questo particolare sistema costituisce una coppia di forze ed è evidente che solo nel caso in cui b=0 (cioè quando le forze agiscono sulla stessa retta d'azione) il momento della coppia risulta nullo.

Per chiarire il significato fisico del momento meccanico si osservi che in generale (come mostrato nel post "L'equazione del Razzo!") per un sistema di N particelle di massa totale M l'accelerazione del centro di massa  acm è dovuta alla risultante delle forze esterne che agisce sul centro di massa:
Fext=Macm=F1+F2+...+FN.
Quindi nel caso risulti  Fext=0 l'accelerazione del centro di massa è nulla, ma ciò non implica necessariamente che risulti anche Mext=0 (e quindi che la variazione del momento angolare L sia nulla essendo Mext=dL/dt).

Ad esempio nel caso di due sole forze se risulta Fext=F1+F2=0 ciò non implica necessariamente che risulti:
Mext=F1b1-F2b2=F(b1-b2)=0 
poiché F1 e F2 potrebbero non trovarsi sulla stessa retta di azione (cioè b≠0).
Nota: ricordiamo anche che in generale se Fext=0 allora Mext è indipendente dalla scelta del punto di riferimento O (vedi il post "Cos'è il Vettore di Posizione?").

Tutto ciò spiega perché se dalla conservazione della quantità di moto Fext=dP/dt=0 si ottiene, per una coppia di forze, la relazione F1=-F2 (in modo che la risultante sia nulla) allora per garantire che le forze siano sulla stessa retta di azione (cioè b=0), è necessaria anche la conservazione del momento angolare L cioè Mext=dL/dt=0 (vedi il post "Sistemi in Equilibrio (meccanico)").

È perciò vero che se consideriamo le forze interne Fint che agiscono tra due corpi F12 e F21 allora dalla conservazione della quantità di moto Fint=dP/dt=0 e da quella del momento angolare Mint=dL/dt=0 possiamo dedurre il principio di azione e reazione per due corpi interagenti, risultando F12=-F21 (con la stessa retta d'azione).

(*) È noto che la condizione di equilibrio per la rotazione è, nel caso di due forze (opposte e parallele): M=F1b1-F2b2=0 (vedi "Sistemi in Equilibrio (meccanico)"); da cui si ricava subito la relazione F1/F2=b2/b1 che è quella tipica di una leva meccanica e cioè "una macchina semplice che trasforma l'energia, ed è un'applicazione del principio di equilibrio dei momenti" (vedi Wikipedia).

venerdì 7 dicembre 2012

La Contrazione relativa delle Lunghezze

In questo post vogliamo mostrare come, nella Teoria della Relatività, sia centrale il concetto di dilatazione relativa del tempo (già trattato nel post "La Dilatazione relativa del Tempo") e come in particolare la contrazione relativa delle lunghezze sia una conseguenza di tale effetto.

Ricordiamo quindi la relazione precedentemente ricavata (vedi il post):
∆t'=∆t/(1-v2/c2)1/2
dove l'intervallo di tempo ∆t' misurato da un riferimento in moto inerziale, appare maggiore rispetto all'intervallo temporale ∆t misurato in un riferimento che, per ipotesi, è in quiete rispetto al fenomeno osservato.
Nota: come vedremo per tale motivo ∆t è detto tempo proprio.

Si ricordi che l'intervallo ∆t misurato dall'orologio in quiete è denominato tempo proprio poiché per definizione: "il tempo proprio è il tempo misurato da un osservatore nel sistema di riferimento solidale con se stesso [cioè col suo orologio]" (vedi Wikipedia): in particolare il tempo proprio è il tempo misurato da un unico orologio nel punto esatto in cui si verifica il fenomeno fisico che stiamo misurando*.

Si noti inoltre che un orologio riproduce il medesimo intervallo di tempo se si trova in quiete o in moto inerziale poiché, come assume la teoria della relatività, le leggi fisiche sono le stesse in entrambi i riferimenti: quindi l'effetto di dilatazione del tempo è relativo al moto dell'osservatore.
Nota: l'effetto diventa verificabile solo quando due orologi in moto vengono posti a confronto, come accade nel noto paradosso dei gemelli (vedi il post).

Fatte queste fondamentali premesse introduciamo un righello posto lungo l'asse X, che si suppone essere rigido**, la cui lunghezza rispetto ad un osservatore in quiete è ∆l; vogliamo ora determinare la sua lunghezza ∆l', misurata da un osservatore in moto parallelo all'asse X con velocità v.
Nota: a priori non possiamo affermare che risulti ∆l=∆l'.

Si noti innanzitutto che l'osservatore in quiete S col righello, può misurare il passaggio dell'osservatore in moto S' dai due estremi A e B della sua riga, con due diversi orologi*** (posti rispettivamente in A e in B): quindi egli misura un intervallo di tempo non proprio pari a ∆t'=∆l/v.
Nota: anche per misurare la velocità v di S' si possono porre due orologi sincronizzati lungo X, ad esempio in A e B, ricavando: v=∆t'/∆l.

Viceversa l'osservatore in moto S' misura, nello stesso luogo e con un unico orologio, il tempo del passaggio dagli estremi A e B del righello (ad esempio col suo orologio da polso) e quindi misura un tempo proprio ∆t=∆l'/v.
Nota: risulta perciò evidente come la situazione tra i due sistemi di riferimento S (in quiete) e S' (in moto) non sia affatto simmetrica.

Utilizzando la relazione precedente ∆t'=∆t/(1-v2/c2)1/2 si ottiene, sostituendo i valori rispettivamente di ∆t'=∆l/v e ∆t=∆l'/v prima definiti:
∆l/v=(∆l'/v)/(1-v2/c2)1/2
da cui risulta immeditamente che
∆l'=∆l(1-v2/c2)1/2
cioè la lunghezza ∆l' misurata dall'osservatore in moto appare minore di un fattore (1-v2/c2)1/2 rispetto alla lunghezza ∆l misurata in quiete.

Si osservi infine che (come abbiamo implicitamente assunto nel post "La Dilatazione relativa del tempo") la misura delle lunghezze perpendicolari al moto non è soggetta a contrazioni: infatti un osservatore posto al centro tra due eventi, li percepisce simultanei anche se lo stesso osservatore si muove perpendicolarmente all'asse X che li unisce (ad esempio lungo Y o Z).
Nota: in pratica ciò significa che lungo gli assi Y e Z di un riferimento non si osservano variazioni nelle misure delle lunghezze (se X è l'asse del moto).

Come avevamo anticipato il significato fisico della contrazione relativa delle lunghezze è strettamente legato alla dilatazione relativa del tempo; in questo senso possiamo affermare che il concetto di tempo (in particolare quello di simultaneità degli eventi) è centrale nella teoria della relatività di Einstein.

(*) In effetti a seconda che il fenomeno temporale osservato possa (oppure no) essere misurato da un unico orologio, possiamo considerare il sistema di riferimento in quiete (oppure no) rispetto al fenomeno osservato.
(**) Con corpo rigido qui intendiamo un corpo che, relativamente al sistema in quiete, non è soggetto a deformazioni; come vedremo la contrazione vista dall'osservatore in moto è solo un effetto relativistico, non dovuto a forze reali che agiscono sul corpo.
(***) Abbiamo supposto che nella misura dell'intervallo di tempo misurato con due orologi (tempo non proprio) questi sono sincronizzati: in generale dati due orologi posti in A e B (nello stesso sistema di riferimento) possiamo porre una sorgente di luce nel punto di mezzo e porre t=0 per entrambi gli orologi nell'istante in cui arriva il segnale luminoso. 
(Si ricordi che il postulato di relatività assume, per definire la simultaneità, che la velocità della luce sia la stessa in tutte le direzioni e per tutti gli osservatori inerziali).

venerdì 23 novembre 2012

Cos'è il Vettore di Posizione?

Ricordiamo che "in fisica, un vettore è un elemento geometrico rappresentato da un segmento orientato, munito cioè di una freccia in una delle sue estremità e caratterizzato da quattro elementi:
  • modulo: rappresenta la lunghezza del vettore (indicata da un valore e un'unità di misura);
  • direzione: è individuata dal fascio di rette parallele alla retta su cui giace il vettore;
  • verso: è descritto dalla punta del vettore stesso, rappresentato da un segmento orientato;
  • punto di applicazione: il punto antecedente a tutti gli altri, ossia il punto iniziale".
    (Vedi Wikipedia)
    Nota:
    si osservi che questa definizione è indipendente dal sistema di coordinate prescelto.
In particolare in fisica è spesso usato il vettore di posizione per individuare un punto, ad esempio una particella puntiforme nel sistema cartesiano.

Per mostrare come questo vettore sia determinante per studiare il moto di sistemi qualsiasi di particelle, prendiamo ad esempio un sistema semplice di sole due particelle, rispettivamente di massa m1 e m2 individuate dai vettori di posizione r1 e r2 applicati nell'origine O di un sistema inerziale.

Come abbiamo visto nel post "L'equazione del Razzo!" possiamo definire il centro di massa del sistema:
rcm=(m1r1+m2r2)/M
(con M=m1+m2) e quindi derivare la velocità del centro di massa:
vcm=drcm/dt=(m1v1+m2v2)/M
dove v1=dr1/dt e v2=dr2/dt sono rispettivamente le velocità delle due particelle rispetto al sistema di riferimento inerziale considerato; inoltre risulta per la quantità di moto del centro di massa:
Pcm=Mvcm=m1v1+m2v2=p1+p2
che quindi è data dalla somma delle quantità di moto delle due particelle.
Nota: per la definizione di sistema inerziale vedi il post "Cos'è un Sistema di Riferimento Inerziale?"

Supponiamo per semplicità che anche il centro di massa rappresenti un riferimento inerziale, cioè risulti acm=dvcm/dt=0 e quindi Fext=Macm=0 (essendo Fext la risultante di tutte le forze esterne).

Poiché abbiamo introdotto il centro di massa come riferimento, possiamo definire due vettori di posizione r'1 e r'2 applicati ad esso che indicano la posizione delle due particelle rispetto al centro di massa; facendo uso della differenza tra vettori possiamo scrivere:
r'1 =r1-rcm   e   r'2=r2-rcm
(in pratica r'1 unisce la punta dei vettori r1 e rcm, lo stesso vale per r'2).

Possiamo quindi derivare le velocità v'1 e v'2 delle due particelle rispetto al centro di massa:
v'1=dr'1/dt=v1-vcm   e   v'2=dr'2/dt=v2-vcm
che, si osservi, corrispondono correttamente alla trasformazione galileana delle velocità (essendo le velocità definite rispetto a due sistemi inerziali)*.
Sostituendo il valore di vcm prima ricavato si ottiene infine:
v'1=m2(v1-v2)/M   e   v'2=m1(v2-v1)/M.

A questo punto abbiamo tutti gli elementi per fare qualche interessante considerazione sul nostro sistema a due particelle.

Si calcolino ad esempio le due quantità di moto delle due particelle p'1=m1v'1 e p'2=m2v'2 rispetto al centro di massa; si ottiene per sostituzione:
p'1=m1m2(v1-v2)/M   e   p'2=m2m1(v2-v1)/M
da cui si può derivare la quantità di moto totale rispetto al centro di massa:
P=p'1+p'2=0 
che risulta correttamente nulla; infatti (come abbiamo già visto nel post "L'equazione del Razzo!") essendo P=Mvcm è evidente che per vcm=0 (poiché il sistema di riferimento è quello del centro di massa) risulti P=0.

Ora calcoliamo il momento angolare totale L (che è stato definito nel post "Sistemi in Equilibrio (meccanico)") rispetto al sistema di riferimento inerziale (cioè rispetto al punto di origine O del sistema di riferimento):
L=r1xm1v1+r2xm2v2.

Poiché, come abbiamo prima ricavato, sono vere le seguenti relazioni per i vettori di posizione:
r1 =r'1 +rcm   e   r2=r'2 +rcm
ed inoltre per le velocità risulta:
v1=v'1 +vcm   e   v2=v'2+vcm
sostituendo questi valori nell'equazione precedente si ottiene (ricordando che P=m1v'1+m2v'2=0):
L=Lcm+rcmxMvcm
dove Lcm=r'1xm1v'1+r'2xm2v'2 è il momento angolare totale rispetto al centro di massa (detto momento di spin) mentre rcmxMvcm è il momento angolare del centro di massa rispetto al sistema di riferimento inerziale (noto come momento orbitale del sistema).

Questo notevole risultato è valido per un sistema composto da un qualunque numero di particelle: il momento angolare totale può sempre essere definito come la somma del momento angolare, calcolato rispetto al centro di massa in moto inerziale (o traslatorio accelerato, vedi la nota*) e quello del centro di massa rispetto al sistema di riferimento inerziale.

Per completezza ricordiamo inoltre che se al sistema sono applicate delle forze esterne**, il momento meccanico*** calcolato rispetto all'origine O è dato da (vedi il post "Sistemi in Equilibrio (meccanico)"):
M=r1xF1+r2xF2.

Inoltre se calcoliamo il momento rispetto ad un diverso punto P otteniamo:
MP=(r1-rP)xF1+(r2-rP)xF2
essendo (r1-rP) e (r2-rP) i vettori di posizione che individuano i punti di applicazione delle forze F1 e F2 rispetto a P (indicato da rP). Perciò svolgendo i prodotti vettoriali si ottiene:
MP=M-[rPx(F1+F2)]
da cui si ricava l'importante risultato che per un corpo in equilibrio traslazionale (cioè se Fext=F1+F2=0) il momento meccanico delle foze non dipende dal punto rispetto al quale è stato calcolato, risultando: MP=M (per qualsiasi numero di particelle).

(*) Tuttavia le considerazioni che seguono valgono anche per un moto traslatorio accelerato del riferimento del centro di massa, infatti le trasformazioni delle velocità restano invariate dato che i versori (ij e k) del riferimento accelerato sono costanti; si ricordi difatti che in generale risulta:
ds/dt=d(ix+jy+kz)/dt=v+(xdi/dt+ydj/dt+zdk/dt).
(Viceversa per un sistema rotante le derivate dei versori non sono nulle).
(**) Si ricordi che le forze interne non influiscono sul moto del sistema (cioè sul centro di massa); infatti per il principio di azione e reazione le interazioni tra due particelle qualsiasi sono uguali ed opposte e agiscono sulla stessa retta d'azione (quindi si annullano tra loro) ed è perciò nullo anche il loro momento (poiché la coppia di forze ha braccio nullo). 
(***) Come abbiamo visto nel post "Sistemi in Equilibrio (meccanico)" dal momento angolare L si può derivare il momento meccanico del sistema cioè M=dL/dt (rispetto ad un punto fissato Ω).
Inoltre, come avevamo mostrato, se il punto Ω è in moto con velocità VΩ la seconda equazione cardinale della dinamica dà: M=dL/dt+VΩxP dove P=Mvcm è la quantità di moto del sistema; perciò solo se Ω è fisso (VΩ=0) oppure se VΩ è parallelo a vcm allora M=dL/dt (essendo VΩxP=0).

lunedì 12 novembre 2012

L'equazione del Razzo!

È noto che "la terza legge della dinamica formulata da Isaac Newton nel 1687 è il principio fondamentale che permette di descrivere il movimento di un razzo a reazione poiché essa afferma che: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria" (vedi Wikipedia).
Nota: sulla terza legge di Newton vedi il post "Il Principio di Azione<=>Reazione".

Inoltre è utile ricordare, prima di derivare l'equazione dinamica del razzo, che in assenza di forze esterne "questo principio stabilisce che in un sistema di particelle la quantità di moto totale P rimane costante, ovvero la sua derivata nel tempo è nulla: dP/dt=0".

Proviamo innanzitutto a dimostrare quest'ultima affermazione:
"Si supponga di avere un sistema costituito da un numero N di punti materiali di massa mi e velocità vi. La quantità di moto totale del sistema è data da
P=m1v1+m2v2+...+mNvN.
Ora se si deriva P rispetto al tempo, supponendo che la massa dei singoli punti sia costante, si trova:
dP/dt=m1dv1/dt+m2dv2/dt+...+mNdvN/dt=Fext+Fint=0.
Infatti risulta rispettivamente:
Fext=0
poiché la risultante delle forze esterne è nulla per ipotesi e inoltre:
Fint=∑k≠j(Fkj+Fjk)=0
essendo la somma delle forze interne nulla per il terzo principio della dinamica, poiché un corpo k che esercita una forza Fkj sul corpo j è anch'esso sottoposto ad una forza Fjk uguale di modulo e direzione ma di verso opposto" (vedi Wikipedia).
Nota: abbiamo posto F=dP/dt=Fext+Fint poiché la variazione della quantità di moto di un sistema di particelle è dovuta alla risultante di tutte le forze applicate su di esso (si generalizza così la seconda legge di Newton).

Si conclude perciò che, per il terzo principio della dinamica (da cui segue Fint=0), la quantità di moto totale del sistema deve restare costante (se siamo in assenza di forze esterne) risultando dP/dt=0 (cvd).
Nota: è chiaro che se le forze esterne non sono nulle risulta, per un sistema qualsiasi di particelle: Fext=dP/dt.

Ora, come applicazione del principio di azione e reazione, supponiamo di avere un razzo di massa totale m (che può essere considerato come un sistema rigido di particelle il suo carburante variabile) che si muove all'istante t con una velocità v e quindi con una quantità di moto:
 p(t)=mv
dal quale viene poi emessa (all'istante t+dt) una quantità di massa dm (cioè una particella infinitesima di carburante sotto forma di gas)* ad una velocità vc (sempre rispetto al sistema inerziale prescelto).

Allora il razzo, dopo l'espulsione, varia la sua velocità (proprio per reazione all'azione del gas espulso) di una quantità dacquisendo cioè una velocità:
v'=v+dv.
Perciò al tempo t+dt la quantità di moto totale è (rispettivamente del razzo più quella della massa dm espulsa):
 p'(t+dt)=(m-dm)(v+dv)+dmvc
da cui segue che nel tempo dt la variazione di quantità di moto totale del sistema è 
dP=p'(t+dt)-p(t)=(m-dm)(v+dv)+dmvc-mv=mdv+(vc-v)dm
avendo trascurato il prodotto dmdv (che è un infinitesimo di ordine superiore).

Dobbiamo però osservare che essendo m(t+dt)<m(t) (poiché la massa del razzo diminuisce col tempo) segue che dm=m(t+dt)-m(t)<0 è una quantità di massa negativa e quindi è corretto scrivere (cambiando segno a dm): 
dP=mdv-(vc-v)dm.

Perciò otteniamo, in presenza di forze esterne Fext applicate al sistema** (come la gravità, la resistenza dell'aria, etc.), l'equazione dinamica del razzo:
 Fext=dP/dt=mdv/dt-vedm/dt
dove ve=vc-v rappresenta la velocità costante di espulsione del carburante (sotto forma di gas) rispetto al razzo.
Nota: la velocità di espulsione ve è un parametro caratteristico del razzo ed è supposta costante.

Quindi se consideriamo solo la forza di gravità (trascurando l'attrito dell'aria e supponendo che l'accelerazione di gravità g sia costante) avremo: 
Fext=-mg 
dove il segno meno indica che la forza di gravità si oppone al moto verticale del razzo.

Se perciò consideriamo il moto verticale del razzo l'equazione differenziale diventa (posto Fext=-mg e moltiplicando per dt/m l'equazione prima ricavata):
-gdt=dv+ve(dm/m)
dove si è tenuto conto che il vettore ve ha segno opposto rispetto a dv.
Integrando dal tempo iniziale t0 fino a t (e quindi integrando i termini del secondo membro, rispettivamente, dalla velocità iniziale v0 a quella finale v(t) e dalla massa iniziale m0 a quella residua m(t)) si ottiene la velocità del razzo:
v(t)=v0+veln(m0/m(t))-gt.
Ciò significa che la velocità del razzo v(t) dipende da quella dei gas espulsi ve e dalla massa m(t) di combustibile residuo al tempo t; mentre l'accelerazione di gravità g si oppone ad essa.

Infine, per chiarire meglio il significato fisico dell'equazione dinamica del razzo, osserviamo che per un sistema di N particelle (nel nostro caso quello complessivo del razzo+combustibile dove la massa totale resta invariata) possiamo definire la quantità di moto totale ad un certo istante come:
P=m1v1+m2v2+...+mNvN=mvcm
dove m=m1+m2+...+mN è la massa totale mentre
vcm=drcm/dt
è la velocità del centro di massa del sistema definito come
rcm=(m1r1+m2r2+...+mNrN)/m.
Quindi l'accelerazione del centro di massa acm=dvcm/dt è dovuta alla risultante delle forze esterne che agisce sul centro di massa (si ricordi che la risultante delle forze interne è nulla) infatti:
Fext=mdvcm/dt=m1dv1/dt+m2dv2/dt+...+mNdvN/dt=F1+F2+...+FN.
Nota: questa equazione è la prima equazione cardinale della dinamica che generalizza la seconda legge di Newton per un sistema a più particelle.

Perciò nel caso del nostro sistema (razzo+combustibile) avremo, quando il razzo è in orbita in assenza di gravità:
 Fext=dP/dt=dmvcm/dt=0.
Da ciò segue subito che la velocità del centro di massa del sistema deve restare costante nel sistema di riferimento prescelto (cioè risulta vcm=costante essendo la massa complessiva m=costante); tuttavia il razzo può variare la sua quantità di moto poiché questa viene controbilanciata ad ogni istante dalla fuoriuscita di carburante (in modo che la quantità di moto totale risulti P=costante).
Più esattamente posto dP/dt=0 risulta dall'equazione del razzo prima ricavata***:
mdv=vedm.
dove m è la massa complessiva e ve la velocità del gas vista dal razzo.

(*) In pratica stiamo considerando un tasso di decremento costante della massa: dm/dt=costante; possiamo ad esempio porre m(t)=m0-kt in modo che m(0)=m0 e dm/dt=-k.
(**) È implicito che la forza esterna si intende applicata al centro di massa di tutto il sistema (cioè razzo+combustibile) come vedremo di seguito.
(***) Si osservi che l'equazione del moto del razzo: Fext=mdv/dt-vedm/dt è espressa in modo diverso dalla seconda legge di Newton per un sistema a massa variabile: Fext=mdvcm/dt+vcmdm/dt poiché qui vcm si riferisce al centro di massa del sistema (vedi il post "Un problema di massa variabile").

venerdì 26 ottobre 2012

Sistemi in Equilibrio (meccanico)

Partiamo come al solito dalla definizione di Wikipedia; questa volta da quella di equilibrio meccanico:
"In fisica si dice che un sistema (un corpo puntiforme, un insieme di particelle, un corpo rigido, etc.) è in equilibrio meccanico quando la sommatoria di tutte le forze esterne e quella di tutti i momenti meccanici esterni risultano nulli".
In formule deve cioè risultare:
Fext=0
Mext=0
dove Fext e Mext rappresentano rispettivamente la risultante delle forze esterne e quella dei momenti meccanici applicati al sistema*.

In particolare si osservi che:
"La prima equazione determina l'equilibrio traslazionale del sistema, in quanto, per la seconda legge di Newton, implica che l'accelerazione del centro di massa** sia nulla. La seconda invece determina l'equilibrio rotazionale del sistema, perché implica che il momento angolare sia costante, per la seconda legge cardinale" (come vedremo di seguito).

Risulta perciò evidente come non sia sufficiente, affinché il sistema sia in equilibrio meccanico, che la forza risultante (cioè la somma vettoriale Fext di tutte le forze applicate al sistema) sia nulla; infatti il sistema potrebbe ruotare in modo accelerato, per esempio intorno al proprio centro di massa in quiete (o con velocità costante), e quindi non essere in equilibrio meccanico risultando Mext≠0.

Ma vediamo la definizione di Momento Meccanico (o momento della forza):
"Il momento meccanico, indicato con M o anche in ambito anglosassone con τ, è la tendenza di una forza a imprimere una rotazione ad un oggetto attorno ad un punto o ad un asse" (vedi Wikipedia).
Formalmente si ha che "il momento meccanico polare rispetto ad un determinato punto Ω detto polo o centro di riduzione è definito in meccanica newtoniana come il prodotto vettoriale tra il vettore posizione (rispetto al polo stesso) e la forza: 
M=rxF
dove r è il vettore di posizione della forza F rispetto al punto Ω fissato".
Nota: si può dimostrare (vedi il post "Cos'è il Vettore di Posizione?") che se il sistema è in equilibrio traslazionale (cioè se è verificata la prima condizione di equilibrio Fext=0) allora il momento risultante è lo stesso per qualsiasi punto Ω fissato (ad esempio il centro di massa).

Inoltre essendo per definizione di forza:
F=dp/dt
dove p=mv è la quantità di moto e v è la velocità impressa alla particella di massa m, segue immediatamente per derivazione (se m è costante):
M=dl/dt
dove l=rxp è per definizione il momento angolare della particella.
La dimostrazione è immediata, infatti derivando dl/dt risulta:
d(rxmv)/dt=(dr/dt)xmv+rxmdv/dt=vxmv+rxF=M  
essendo vxmv=0 (il prodotto vettoriale di due vettori paralleli è nullo).

Questa ultima relazione rappresenta la seconda equazione cardinale del sistema (ma solo quando la velocità del polo è nulla o parallela alla quantità di moto della particella)***.
Nota: se il sistema è formato da più particelle allora il momento angolare totale L è dato dalla somma vettoriale di tutti i momenti applicati alle particelle del sistema (rispetto allo stesso punto) e ciò vale anche per il momento meccanico totale M.

Si ricordi che il moto di un sistema di particelle si può descrivere, in generale, come il moto vcm=dr/dt del centro di massa rsommato a quello rotatorio descritto dal momento angolare L del sistema rispetto al proprio centro di massa, il cui riferimento può essere inerziale o traslatorio accelerato (quindi anche circolare ma non rotatorio, vedi la nota sotto) come meglio descritto nel post "Cos'è il Vettore di Posizione?".
Nota: se il sistema di riferimento del centro di massa è rotante allora si deve considerare anche la variazione dei suoi versori (i(t), j(t)k(t)), risultando in generale: ds/dt=d(ix+jy+kz)/dt=v+(xdi/dt+ydj/dt+zdk/dt).

Perciò nel caso statico in cui la velocità di traslazione del centro di massa è nulla (vcm=0) e anche il momento angolare totale è nullo (L=0) il sistema sarà, per definizione, in equilibrio statico (essendo ovviamente soddisfatte le relazioni prima introdotte di equilibrio meccanico).

Tuttavia il sistema può anche trovarsi in uno stato di moto costante (vcm=costante) e di momento angolare totale costante (L=costante) per poter essere definito in equilibrio meccanico (poiché in questo caso forza e momento applicati al sistema sono nulli).

Consideriamo ad esempio il caso del sistema orbitante Terra-Sole in assenza di perturbazioni. In questo caso le forze esterne sono nulle e quelle interne sono forze centrali e quindi, per definizione, F è sempre parallela al raggio r (che è applicato nel centro di massa del sistema); da ciò segue M=rxF=0 cioè il sistema è in equilibrio meccanico (ed L è una costante del moto poiché M=dL/dt=0).
Nota: poiché l'equilibrio è traslazionale (cioè Fext=0), il momento M totale è nullo per qualsiasi punto Ω fissato e non solo per il centro del sistema.

Si osservi perciò come il significato fisico di sistema in equilibrio sia correlato al principio di conservazione della quantità di moto (Fext=dP/dt=0) e alla conservazione del momento angolare del sistema (Mext=dL/dt=0).
Nota: è ovvio che per un sistema isolato le condizioni di equilibrio sono sempre soddisfatte (come nell'esempio prima descritto).

(*) Le forze interne non influiscono sul moto del centro di massa del sistema; infatti per la terza legge di Newton, le interazioni tra due particelle qualsiasi sono uguali ed opposte e agiscono sulla stessa retta d'azione (quindi si annullano tra loro) ed è ovviamente nullo anche il loro momento (poiché tutte le coppie di forze interne hanno braccio nullo).
(**) Ricordiamo che "il centro di massa di un sistema ha lo stesso moto di un singolo punto materiale in cui è concentrata tutta la massa, e su cui agisce la risultante delle sole forze esterne agenti sul sistema" (vedi Wikipedia); ciò discende da un principio fondamentale della dinamica dei sistemi: la prima equazione cardinale (vedi il post "L'equazione del Razzo!").
(***) Per tener conto dell'eventuale moto del punto Ω (indicato da rΩ) rispetto al quale viene calcolato il momento meccanico, riscriviamo il vettore di posizione r della forza rispetto a Ω come r=r'-rΩ (dove r' indica la posizione della forza rispetto all'origine del riferimento).
Si può così generalizzare la seconda equazione cardinale (posto l=rxmv):
d(rxmv)/dt=(d(r'-rΩ)/dt)xmv+rxmdv/dt=vxmv-VΩxmv+rxF (con v=dr'/dt e VΩ=drΩ/dt) perciò M=rxF=dl/dt+VΩxp (essendo vxmv=0).

lunedì 30 luglio 2012

Derivare la Massa Relativistica

Scopo di questo post è mostrare come sia possibile derivare la relazione della massa relativistica a partire da tre principi relativistici:
I) la legge di conservazione dell'energia relativistica;
II) la legge di conservazione della quantità di moto relativistica;
III) la legge di composizione relativistica delle velocità.

Supponiamo a questo scopo di avere due corpi di uguale massa m0 (quando vengono misurati in quiete) distanti tra di loro; immaginiamo che il primo corpo sia messo in moto con velocità v in rotta di collisione con il secondo (che è in quiete) lungo l'asse X.

Ipotizziamo inoltre che l'urto sia completamente anelastico: cioè dopo l'urto i due corpi si uniscono (in un sol corpo M) e viaggiano alla stessa velocità V.
Nota: per definire l'urto anelastico vedi "L'urto Elastico o Anelastico".

Possiamo perciò scrivere le due seguenti relazioni, dove m0 indica la massa in quiete mentre m è la massa in moto (che chiameremo relativistica) che ricordiamo sono poste in rotta di collisione.
Nota: si osservi che a priori non possiamo affermare che le due masse m0m sono uguali.

I) La prima relazione che scriviamo è vera per la conservazione della massa (o meglio, moltiplicando entrambi i termini dell'equazione per c2, per la conservazione dell'energia) dove M indica la massa complessiva dopo l'urto:
m+m0=M.
II) Mentre la seconda relazione vale per la conservazione della quantità di moto, dove V è la velocità di M dopo l'urto e v la velocità di m prima dell'urto (mentre m0 è in quiete):
mv=MV.
Nota: abbiamo implicitamente stabilito di scrivere la quantità di moto come p=(massa relativistica) x (velocità) ma si veda anche la penultima nota.

Da queste due relazioni si ricava subito che mv=(m+m0)V da cui segue che
m(v-V)=m0V
e quindi si ottiene la seguente relazione tra il rapporto delle velocità e quello delle masse:
v/V=1+m0/m.

Ora chiediamoci cosa vede invece un osservatore in moto solidale con il corpo m (a velocità v lungo l'asse X): in questo caso il corpo m appare in quiete mentre è l'altro corpo a muoversi con velocità -v verso il primo corpo.

Perciò dopo l'urto (essendo la situazione del tutto simmetrica), la massa M si muoverà con velocità -V rispetto all'osservatore in moto.

Per chiarire meglio la situazione si osservi che nel caso classico, la relazione tra le due velocità V e -V è data dalla composizione galileiana delle velocità:
-V=V-v
essendo v la velocità relativa tra i due riferimenti, dalla quale si ottiene
v/V=2
da cui sostituendo nella equazione sopra segue la relazione classica m=m0.
Nota: vedremo invece come nel caso relativistico risulti v/V≈2 solo se v<<c.

III) Utilizzando invece la relazione relativistica tra le velocità -V e V del corpo in moto M si può derivare come vedremo il rapporto relativistico v/V; tale relazione è infatti definita dalle Trasformazioni di Lorentz:
-V=(V-v)/(1-vV/ c2).
Nota: come anticipato sopra per v<<c si ottiene di nuovo la relazione classica -V=V-v.

Riscriviamo quindi l'equazione precedente (eliminando il denominatore) nella forma di una equazione di secondo grado:
(v/c2)V2-2V+v=0
la cui soluzione è (posto ß=v/c)*:
V=(c2/v)[1-(1-ß2)1/2]
dove abbiamo escluso la soluzione col segno positivo poiché avremmo V>c.

Infine da questa soluzione ricaviamo (moltiplicandola per 1/v) la relazione
v/V=ß2/[1-(1-ß2)1/2]
e quindi, dall'equazione prima ottenuta v/V=1+m0/m deduciamo (per sostituzione e dopo alcuni passaggi algebrici) la massa relativistica:
m=m0/(1-ß2)1/2
che perciò dipende dalla velocità relativa v dei due sistemi inerziali.

Si osservi però che essendo l'energia relativistica definita, a meno di un fattore c, come la massa m (essendo cioè E=mc2) si preferisce identificare con il termine massa del corpo quella definita in quiete m0 (vedi Wikipedia) che in effetti è un invariante relativistico (come mostreremo di seguito).
Nota: invece di esprimere p=mdx/dt è meglio scrivere p=m0dx/dτ dove m0 è la massa in quiete e τ è il tempo proprio della particella m0 dove vale la relazione: dτ/dt=(1-ß2)1/2 (vedi "La Dilatazione relativa del Tempo").

Si elevi ora al quadrato la relazione precedente e si moltiplichino entrambi i termini per c4 da cui si ottiene (eliminando il denominatore):
m2c4-m2v2c2=m02c4 
che possiamo riscrivere nella forma nota, forse la relazione più importante della relatività:
E2-p2c2=m02c4
essendo E=mc2 l'energia relativistica**, p=mv la quantità di moto relativistica e m0 la massa in quiete della particella, che quindi risulta indipendente dal sistema di riferimento (è un invariante relativistico)***.
Nota: per altre considerazioni sulla precedente relazione vedi anche il post "Massa a riposo 'nulla'!"

(*) Ricordiamo che la soluzione generale di una equazione di secondo grado ax2+bx+c=0 è data da x=[-b±(b2-4ac)1/2]/2a; perciò nel nostro caso essendo (v/c2)V2-2V+v=0 risulta: V=(c2/v)[1±(1-ß2)1/2].
(**) L'energia totale relativistica E della particella è data, per ipotesi, dalla sua energia in quiete E0=m0c2 sommata all'energia cinetica Ec cioè E=m0c2+Ec. In questo modo dalla relazione E=mc2 si ricava subito la relazione classica (essendo 1/(1-ß2)1/2≈1+ß2/2+...):
Ec=mc2-m0c2=m0c2[1/(1-ß2)1/2-1]≈(1/2)m0v2 quando v<<c.
(***) Si noti infatti come la massa in quiete m0 sia deducibile da qualsiasi sistema di riferimento, una volta noti l'energia E e la quantità di moto p della particella in moto, senza dipendere dalla velocità relativa v.

martedì 17 luglio 2012

L'espansione adiabatica di Joule

Nel post "Il Principio di Conservazione... termodinamico!" abbiamo visto come si può definire (per un sistema termodinamico) l'energia interna U che, per un sistema chiuso (che non scambia cioè massa con l'esterno), è in relazione col calore fornito Q e il lavoro L fatto sul sistema; tuttavia per motivi pratici si preferisce definire la variazione di energia interna ∆U (più facile da valutare del valore assoluto):
∆U=Q+L.
Questa relazione, ricordiamo, rappresenta il primo principio della termodinamica.

In particolare si osservi che, per definizione, l'energia interna di un gas si identifica con l'energia totale delle sue molecole: cioè l'energia cinetica (di traslazione, rotazione e vibrazione) va sommata all'energia potenziale dovuta, in pratica, all'attrazione intermolecolare.

Ora si ricordi, come abbiamo già visto nel post "L'Equipartizione dell'Energia", che secondo la Teoria cinetica dei gas l'energia cinetica media di un gas ideale è pari a
<Ec>=(q/2)nRT
dove q è il numero di gradi di libertà delle molecole del gas mentre n è il numero di moli e T la temperatura del gas.

Poiché per un gas ideale per definizione (vedi il post "Un gas ideale o... perfetto!"), non si hanno forze di interazione a distanza (cioè l'energia potenziale è nulla), avremo per la variazione di energia interna ∆U del sistema quella dovuta alla sola energia cinetica:
∆U=(q/2)nR∆T 
che perciò dipende dalla variazione di temperatura del gas.
Nota: l'equazione di stato dei gas perfetti è pV=nRT quindi se l'energia interna aumenta (cioè ∆T>0) allora anche la pressione del sistema aumenta (se V=costante).

Alla luce di queste considerazioni è facile interpretare un esperimento classico compiuto nell'ottocento dal fisico inglese James Prescott Joule, che fece espandere liberamente un gas, contenuto in un serbatoio rigido, in un altro serbatoio adiacente vuoto e connesso da un rubinetto; entrambi i serbatoi immersi in un calorimetro in equilibro termico ad una data temperatura T.

Joule osservò, dopo l'espansione libera e irreversibile a causa del salto repentino del gas nel secondo recipiente, che il termometro posto dentro al calorimetro non segnava (quasi) nessuna variazione della temperatura (si suppone che per un gas ideale risulti proprio ∆T=0).
Nota: la relazione tra la variazione di temperatura ∆T di un sistema termodinamico e il calore Q scambiato con l'ambiente è ∆T=Q/C dove C è la capacità termica del sistema in esame.

Quindi, essendo nullo sia il calore scambiato Q=C∆T=0 (trasformazione adiabatica) che il lavoro esterno L=0 della trasformazione (essendo rigide le pareti del contenitore non veniva fatto nessun lavoro con l'esterno), ottenne per l'energia interna del gas: 
∆U=Q+L=0.

Da ciò dedusse, essendo l'energia interna di un gas ideale U(T,V) funzione* della temperatura T e del volume V, che l'energia interna non dipende dal volume** (che nell'esperimento varia) ma solo dalla temperatura (che infatti nell'esperimento non varia risultando ∆U(T)=0).
Nota: possiamo esprimere, come variabili indipendenti di U, anche p e T oppure p e V (che sono variabili dell'equazione di stato pV=nRT) per cui U=f(T,V)=f(p,T)=f(p,V).

Il significato fisico di questo esperimento diventa subito evidente se consideriamo la teoria cinetica dei gas, da cui sappiamo per il principio di equipartizione dell'energia che ∆U dipende proprio dalla variazione ∆T della temperatura: come abbiamo prima ricordato ∆U=(q/2)nR∆T.
Nota: per chiarimenti sulla relazione tra l'energia cinetica e la temperatura di un gas vedi il post "L'Equipartizione dell'Energia".

Ma cosa accade se consideriamo un gas reale quando per pressioni elevate e basse temperature le condizioni di gas ideale decadono (poiché dobbiamo tener conto dell'energia potenziale intermolecolare)?
Come discusso nel post "Il Teorema del Viriale" a cui rimandiamo, per un sistema a molte particelle come un gas vale in generale la relazione:
<Ec>=-(1/2)<iriFiext+∑ijrijFijint>
dove <Ec> è la media temporale dell'energia cinetica di tutte le particelle.
Nota: la relazione <Ec>=(q/2)nRT ottenuta per un gas ideale è vera se trascuriamo le forze interne tra le molecole (infatti se poniamo ijrijFijint=0 risulta <Ec>=-(1/2)<iriFiext>=(q/2)nRT).

Si osservi che il contributo delle forze esterne -(1/2)iriFiext è dovuto, nel caso del gas, alle reazioni delle pareti quando vengono colpite dalle molecole (quindi rappresenta l'energia interna U(T,V)), mentre quello delle forze interne ijrijFijint è dovuto alle interazioni molecolari (cioè all'energia potenziale Upot(V)); avremo perciò per l'energia del gas U(T,V) oltre al contributo cinetico anche quello potenziale:
U(T,V)=(q/2)nRT+(1/2)Upot(V)
dove Upot(V) è appunto l'energia potenziale dovuta alle forze intermolecolari (generalmente attrattive); tale energia (essendo in pratica inversamente proporzionale alla distanza) diminuisce in media all'aumentare della distanza tra le molecole e quindi dipende dal volume del gas***.
Nota: per un gas reale l'equazione di stato è perciò pV=nRT+(1/q)ijrijFijint (avendo posto (2/q)U(T,V)=pV) che infatti si riconduce a quella dei gas ideali per ijrijFijint=0 (risultando pV=nRT).

(*) Una volta stabilita l'equazione di stato di un gas si possono definire le variabili termodinamiche indipendenti; nel caso di un gas ideale risulta pV=nRT dove le variabili (p,V,T,n) definiscono lo stato di equilibrio: saranno perciò sufficienti solo due variabili per definire la funzione di stato (fissato il numero n di moli).
(**) Si può ricavare teoricamente la relazione che definisce la variazione di energia interna di un gas U(T,V) rispetto al volume e risulta (fissata la temperatura):
(∂U/∂V)T=T(∂p/∂T)V-p.
Da ciò deriva immediatamente che per un gas ideale con p=nRT/V:
(∂U/∂V)T=T(∂(nRT/V)/∂T)V-nRT/V=0
cioè U(T) non dipende dal volume.
(***) Per un gas reale tipo van der Waals l'equazione di stato è:
(p+n2a/V2)(V-nb)=nRT
dove il termine n2a/V2 tiene conto dell'effetto delle forze intermolecolari di coesione (forze attrattive) mentre nb considera le dimensioni finite delle molecole (forze repulsive); da cui si deriva che per un gas reale con
p=nRT/(V-nb)-n2a/Vsi ha (vedi la nota**):
(∂U/∂V)T=T(∂p/∂T)V-p=n2a/V2 da cui integrando Upot(V)=-n2a/V+K
(dove K è una costante che può dipendere dalla temperatura fissata).

martedì 3 luglio 2012

Il Pendolo (non) isocrono!

Come è noto "il pendolo semplice è un sistema fisico costituito da un filo inestensibile e da una massa puntiforme m fissata alla sua estremità e soggetta all'attrazione gravitazionale (che supponiamo uniforme nello spazio e costante nel tempo)" (vedi Wikipedia).

In particolare ricordiamo che con isocronismo del pendolo si intende che "le oscillazioni di piccola ampiezza (cioè per sinθθ) si svolgono tutte nello stesso tempo, a prescindere dalla loro ampiezza"(vedi Wikipedia); ed è ciò che vogliamo mostrare di seguito, con qualche annotazione.

Nella seguente figura, supposto che il filo a cui è appesa la massa è inestensibile e il punto di rotazione è privo di attrito, è mostrata la componente della forza gravitazionale F=mg (per ipotesi costante) che agisce sulla massa m e determina il moto.

In particolare mentre la componenete normale è controbilanciata dal vincolo del filo inestensibile* la componente che determina il moto è tangenziale alla sua traiettoria:
Ft=-mgsinθ
dove θ rappresenta l'angolo che il filo di lunghezza L forma con la verticale, mentre il segno meno indica che Ft si oppone all'aumentare dell'angolo θ.
Nota: il filo è sottoposto ad una tensione τ=Fc-Fl dovuta alla forza gravitazionale longitudinale Fl=-mgcosθ (che quindi non contribuisce al moto) e a quella centripeta Fc=mv2/L (dovuta alla velocità v di rotazione). 


Si osservi che al variare del tempo t, lo spostamento x(t) lungo l'arco di circonferenza** descritto dalla massa m è dato da
x(t)=Lθ(t)
essendo per definizione di variabile angolare θ(t)=x(t)/L.

Come è noto per piccoli angoli risulta sinθ(t)≈θ(t) perciò con questa approssimazione si ottiene subito x(t)≈Lsinθ(t) e quindi sostituendo il valore di sinθ(t)x(t)/L nell'equazione Ft=-mgsinθ:
Ft-mgx(t)/L.
Inoltre, essendo per definizione di forza Ft=md2x(t)/dt2 possiamo infine scrivere l'equazione del pendolo isocrono:
md2x(t)/dt2=-mgx(t)/L.
Nota: in funzione dell'angolo θ si ha anche md2θ(t)/dt2=-mgθ(t)/L essendo x(t)=Lθ(t).

La soluzione di questa equazione è nota (ed è formalmente identica a quella del moto armonico semplice md2x(t)/dt2=-kx(t) posto k=mg/L):
x(t)=x0cos(2π/T)t
dove x0 rappresenta, per definizione, il punto in cui si trova la massa m al tempo t=0 lungo la circonferenza (istante in cui la massa viene lasciata libera di oscillare) mentre T è il periodo di oscillazione:
T=2π(L/g)1/2.
Nota: possiamo porre x0=0 quando il pendolo si trova nella posizione più bassa (cioè θ=0); in questo caso risulta correttamente x(t)=0 per x0=0 (cioè il pendolo resta in posizione di quiete).

Si noti che questa ultima relazione definisce il significato fisico del pendolo cosiddetto isocrono: infatti a parità di lunghezza L le oscillazioni avranno tutte lo stesso periodo T indipendentemente dalla loro ampiezza x0.

Nel caso invece la relazione di approssimazione sinθ(t)≈θ(t) non sia più valida*** il periodo del pendolo, che in generale non è isocrono, dipende dall'ampiezza x0 dell'oscillazione; infatti risulta:
T=2π(L/g)1/2[1+(1/2)2sin2(x0/2L)+(3/8)2sin4(x0/2L)+...].
Nota: l'equazione non approssimata del pendolo da cui si ricava T è md2θ(t)/dt2=-mgsinθ(t)/L non valendo più la relazione x(t)≈Lsinθ(t).

Ma allora per quale motivo il pendolo viene solitamente considerato, anche per oscillazioni non troppo piccole, come se fosse isocrono?

La risposta è dovuta al piccolo errore che di solito si commette nella approssimazione fatta; si osservi infatti che, confrontando le due ultime equazioni, occorre un'ampiezza di ben 23° per commettere un errore di circa l'1% sul periodo esatto: in pratica solo una oscillazione su cento!

(*) L'equazione completa del moto del pendolo (inestensibile e privo di attrito) è F=mg+τ dove τ è la tensione del filo; quindi oltre alla componente tangenziale Ft=-mgsinθ che definisce il moto, avremo anche la componente normale lungo la direzione del filo Fc=τ-mgcosθ (essendo Fc=mv2/L la forza centripeta del pendolo): possiamo quindi ricavare la tensione τ del filo una volta determinata la variabile θ(t) (essendo v(t)=dx(t)/dt=Ldθ(t)/dt).
(**) Poiché la massa m è vincolata a muoversi per inerzia su un piano (non agendo forze trasversali) e lungo la circonferenza di raggio L, è sufficiente una sola variabile x(t) per descrivere il moto in modo appropriato (ma possiamo anche usare la variabile angolare θ(t)=x(t)/L).
(***) Restano comunque vere le ipotesi di inestensibilità del filo (privo di massa) e assenza di attrito; ovviamente la relazione sinθ(t)≈θ(t) è vera in relazione all'errore che vogliamo ottenere (come osserviamo di seguito).

lunedì 25 giugno 2012

Un esperimento chiave: EPR!

Iniziamo questo post enunciando il classico Principio di Località (che verrà poi discusso in seguito):
"In fisica, il principio di località afferma che oggetti distanti non possono avere influenza istantanea l'uno sull'altro: un oggetto è influenzato direttamente solo dalle sue immediate vicinanze" (vedi Wikipedia).
Nota: le immediate vicinanze sono ovviamente definite, in senso relativistico, dalla velocità limite della luce.

Introduciamo ora un esperimento ideale (o meglio un esperimento mentale o Gedankenexperiment).
Supponiamo di avere una sorgente di particelle* che emette in modo simmetrico, verso due osservatori A e B posti sullo stesso asse con al centro la sorgente, coppie di elettroni con momento angolare totale nullo (vedi Wikipedia).
Secondo le regole della meccanica quantistica, e per come è stata configurata la sorgente, queste coppie presentano le seguenti proprietà:
-> ogni coppia è formata da due elettroni (che chiameremo A e B come i relativi osservatori) con spin uguali ed opposti** (e indicati rispettivamente con gli apici "+" e "-");
-> fissato un asse lungo cui misurare lo spin (ad esempio X), allora ogni volta che un osservatore misura il valore dello spin di un elettrone (ad esempio Ax+), l'altro osservatore trova sempre il valore opposto (cioè Bx-);
-> non possiamo misurare contemporaneamente, lungo assi diversi (ad esempio X e Y), lo spin di un elettrone: queste quantità osservabili sono tra loro incompatibili.
Nota: in effetti la sovrapposizione di due campi magnetici per la misura contemporanea dello spin lungo X e Y, darebbe luogo (per le proprietà vettoriali) ad un terzo campo e ad un nuovo asse di spin.

Si osservi che tutti gli elettroni sono per ipotesi identici e indistinguibili; le etichette A e B servono solo ad indicare che i due elettroni vengono misurati da due osservatori (A e B) posti a debita distanza (in modo cioè che le misure siano completamente indipendenti).

In effetti l'esperimento, una volta eseguito in laboratorio, conferma le proprietà quantistiche che abbiamo sopra enunciato.
Tuttavia per ciò che riguarda la sua interpretazione fisica, la nostra intuizione classica*** ci porterebbe ad affermare che la coppia di elettroni con spin opposti misurata ad esempio lungo l'asse X (cioè (Ax+,Bx-) oppure (Ax-,Bx+)), è definita anche prima di essere misurata: potremmo cioè ragionevolmente supporre che al momento della separazione degli elettroni ognuno di essi abbia uno spin ben definito.
Nota: se così fosse la teoria quantistica, che non prevede l'esistenza di questo determinato stato prima della misurazione, sarebbe incompleta.

Seguendo questo ragionamento, se consideriamo lo spin di un elettrone lungo assi diversi (ad esempio X e Y), avremo evidentemente quattro possibili orientazioni dello spin per ogni coppia di particelle (rilevate in una serie di esperimenti ripetuti), come di seguito elencate:
[(Ax+,Ay+),(Bx-,By-)];  [(Ax+,Ay-),(Bx-,By+)];  [(Ax-,Ay+),(Bx+,By-)];  [(Ax-,Ay-),(Bx+,By+)]
dove a parità di asse lo spin degli elettroni A e B è sempre di segno opposto.
Nota: ovviamente questo è un modo indiretto (cioè deduttivo e non sperimentale) di stabilire le possibili coppie di orientazione dello spin, in linea con la nostra procedura classica di affrontare il problema.

Possiamo ora allargare l'esperimento a tre diversi assi X, Y e Z (non necessariamente ortogonali tra loro); in questo modo come mostreremo possiamo derivare una diseguaglianza numerica che è possibile verificare sperimentalmente.

In effetti in questo caso tutte le possibili orientazioni dello spin per ogni coppia di particelle sono otto; in particolare possiamo indicare con
N[(Ax, Ay, Az),(Bx, By, Bz)] 
il numero N di volte in cui, in una serie di esperimenti ripetuti, si ottiene quel tipo di orientazione dello spin per ogni coppia di particelle A e B (lungo i tre assi considerati); ecco le otto possibilità:
N1[(Ax+,Ay+,Az+),(Bx-,By-,Bz-)]N2[(Ax-,Ay+,Az+),(Bx+,By-,Bz-)]N3[(Ax+,Ay-,Az+),(Bx-,By+,Bz-)];  N4[(Ax-, Ay-,Az+),(Bx+,By+,Bz-)];  N5[(Ax+,Ay+,Az-),(Bx-,By-,Bz+)]N6[(Ax-,Ay+,Az-),(Bx+,By-,Bz+)]N7[(Ax+,Ay-,Az-),(Bx-,By+,Bz+)];  N8[(Ax-,Ay-,Az-),(Bx+,By+,Bz+)].

Ora supponiamo che, durante l'esperimento, sia stata misurata ad esempio per N volte la configurazione (Ax+, By+) (cioè lo spin di A lungo l'asse X positivo e lo spin di B lungo l'asse Y positivo); avremo perciò la seguente relazione considerando tutte le possibili combinazioni:
N(Ax+,By+)=N3+N7
(dove omettiamo per semplicità gli argomenti di N3 e N7) e sarà ovviamente vero che in generale:
N3+N7N3+N7+N4+N5 
dove il segno di uguale vale solo se N4=0 e N5=0.

Se poi consideriamo un numero totale Ntot molto elevato di prove, la probabilità che si presenti la configurazione (Ax+,By+) sarà pari a
P(Ax+,By+)=(N3+N7)/Ntot.
Ma allo stesso modo è anche vero che (considerando gli assi X, Z e Z, Y rispettivamente):
P(Ax+,Bz+)=(N5+N7)/Ntot   e   P(Az+,By+)=(N3+N4)/Ntot.

In definitiva, osservando che N3+N7 ≤ (N5+N7)+(N3+N4), ricaviamo la seguente disuguaglianza di Bell (dal nome del fisico irlandese John Stewart Bell che la derivò per primo):
P(Ax+,By+) P(Ax+,Bz+)+P(Az+,By+).

Diciamo subito che questa relazione derivata classicamente è stata poi sottoposta a verifica sperimentale, ma si è ottenenuto un risultato che non è in accordo con quello derivato teoricamente (almeno per certe scelte di inclinazione relativa degli assi).
Nota: l'esperimento conferma invece le previsioni teoriche della meccanica quantistica, con una derivazione del tutto diversa da quella classica.

In effetti, ciò che abbiamo trascurato nel nostro ragionamento (e che invece la meccanica quantistica prevede correttamente), è che non possiamo presumere o stabilire in nessun modo come è orientato lo spin di ogni singola particella prima della misura (come abbiamo fatto sopra).

In particolare, i due diversi stati quantistici (A+,B-) e (A-,B+) lungo qualsiasi asse fissato, determinano in realtà un unico stato non separabile di sovrapposizione quantistica detto entangled; perciò, anche se le particelle A e B sono fisicamente separate, non è possibile affermare che esse si trovano in una delle due possibili configurazioni di spin: possiamo solo dire che sono probabili entrambe, fino alla misurazione dello spin di una delle due particelle, la cui misura determina immediatamente anche lo stato dell'altra.

In pratica ciò significa che la meccanica quantistica rinuncia implicitamente al principio di località (conservando però le classiche condizioni di realismo e completezza), in modo da permettere la stretta correlazione tra le particelle, anche quando queste sono fisicamente separate!
Nota: ciò vale anche per le teorie deterministiche a variabili nascoste che, per riprodurre le predizioni quantistiche, devono essere non locali.

Si noti infine che la violazione della località non implica che le particelle A e B comunichino in modo istantaneo; infatti la misura su A (che determina il risultato di B) non provoca nessuna variazione riscontrabile su B (poiché la probabilità statistica dei risultati ottenuti, cioè Bx+ oppure Bx-, è sempre del 50%) e quindi non viene trasmessa alcuna informazione da A a B.
Nota: senza rinunciare alla località possiamo altresì rifiutare il realismo: cioè le proprietà di un sistema quantistico non esistono prima della misura!

(*) Esponiamo qui la versione semplificata proposta da David Bohm; in effetti "Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen (EPR) proposero questo esperimento ideale in un articolo pubblicato nel 1935 intitolato "La descrizione quantistica della realtà fisica può ritenersi completa?" usando però l'impulso come quantità osservabile (vedi Wikipedia).
(**) Nel 1924 il fisico "Wolfgang Pauli introdusse ciò che chiamò un grado di libertà quantico a due valori associato con gli elettroni del guscio esterno di un atomo" (vedi Wikipedia) e che poi venne denominato spin (cioè il momento angolare intrinseco associato alle particelle).
(***) In pratica stiamo ipotizzando "alcune deboli e generali condizioni, come realismo, località e completezza, ritenute ragionevolmente vere per qualunque teoria che descriva la realtà fisica senza contraddire la relatività" (vedi Wikipedia).