mercoledì 29 febbraio 2012

Una "Deduzione Elementare": E=mc^2

L'equivalenza tra massa ed energia è espressa come noto dalla celeberrima formula (dedotta da Albert Einstein nel 1905):
E=mc2.
In particolare ricordiamo che "questa formula si fonda sul concetto che un corpo a riposo possiede la capacità di liberare energia trasmutando tutta la sua massa o una parte in radiazione elettromagnetica" o viceversa, come vedremo di seguito, l'energia assorbita può trasformarsi in massa (vedi Wikipedia).

Vogliamo ora mostrare una "deduzione elementare dell'equivalenza di massa ed energia" così definita e proposta per la prima volta da Einstein nel 1947.

La derivazione è notevole poiché, oltre ai due principi base della relatività ristretta (equivalenza dei sistemi di riferimento inerziali e costanza della velocità della luce), fa uso di sole tre leggi fisiche classiche già note in precedenza (quindi non relativistiche).
Queste leggi sono:
I) la legge di conservazione dell'impulso per sistemi isolati (piniziale=pfinale);
II) l'equazione dell'impulso prodotto da una radiazione e.m. (p=E/c);
III) l'espressione classica relativa all'aberrazione della luce (tanø=v/c).
Nota: ø è il cosiddetto angolo di aberrazione che verrà definito di seguito.

Consideriamo a tal fine due diversi sistemi di riferimento inerziali:
-> uno in quiete che indichiamo con S0;
-> l'altro in moto che chiamiamo S e che si sposta verticalmente rispetto a S0 (cioè lungo l'asse Y) a velocità non relativistica (cioè v<<c).

Ora supponiamo che un corpo di massa m si trovi in quiete nel primo riferimento S0 ed assorba due dosi di radiazione di energia E/2 e quindi impulso p=E/2c (una proveniente da destra e l'altra da sinistra in modo simmetrico e parallelo all'asse X): per ragioni di simmetria il corpo resterà in quiete, ma la sua energia interna varierà di una quantità pari a 
E=E/2+E/2.

Vediamo invece come viene descritto lo stesso fenomeno visto dal sistema di riferimento in moto S. In questo caso il corpo m si muove a velocità v lungo l'asse verticale Y quindi:
-> la quantità di moto del corpo di massa m lungo l'asse Y è pari a
pm=mv
-> l'impulso della radiazione p=E/2c resta invariato (essendo v<<c) ma, a causa del moto, è inclinato di un certo angolo ø rispetto all'asse X (per il noto fenomeno di aberrazione della luce)*; risulta perciò, per la componente verticale dell'impulso lungo l'asse Y: 
py=psinø=(E/2c)sinø 
per ogni singola dose di radiazione. Inoltre, come nel sistema in quiete, la quantità di moto lungo X non varia (sempre per motivi di simmetria).
Nota: per derivare sinø basta ricordare che l'angolo di aberrazione è dato dalla relazione classica tanø=v/c che per v<<c diventa tanø≈sinø=v/c.

In definitiva rispetto al sistema in moto S avremo, per la quantità di moto complessiva lungo Y (cioè quella del corpo in moto+radiazione):
a) prima dell'assorbimento della radiazione:
ptot=mv+(E/c)sinø=mv+Ev/c2
essendo come abbiamo anticipato sopra sinø=v/c;
b) dopo l'assorbimento della radiazione:
p'tot=m'v
poiché se la velocità v resta invariata (come accade nel sistema in quiete)**, dobbiamo prevedere che possa variare la massa da m a m'.
Perciò per la conservazione dell'impulso lungo l'asse Y (cioè ptot=p'tot) dovrà valere la relazione di equivalenza:
mv+Ev/c2=m'v.
Nota: le componenti dell'impulso della radiazione lungo l'asse X sono uguali e contrarie, quindi si annullano tra loro anche nel sistema in moto.

Ma ciò significa che (posto ∆m=m'-m ed eliminando v da tutti i membri dell'equazione):
∆m=E/c2
e quindi, senza aver fatto uso del meccanismo formale della teoria della relatività, abbiamo ottenuto la nota relazione:
E=∆mc2.
Nota: questa relazione, derivata in modo approssimato per v<<c, è del tutto esatta nel caso limite di v-->0 ed è quindi vera per un corpo in quiete.

Il significato fisico di questa equivalenza, alla luce della sua derivazione, è perciò il seguente: per un corpo in quiete di massa m la variazione di energia interna (dovuta all'energia assorbita E) è direttamente proporzionale alla variazione della sua massa a riposo***.

(*) Consideriamo ad esempio un telescopio, puntato verso una stella posta lungo l'asse X, che si muove con il moto relativo della terra v lungo l'asse Y (in analogia alla nostra massa m). L'angolo di puntamento ø soddisferà le seguenti relazioni trigonometriche (basta disegnare un triangolo rettangolo la cui ipotenusa, con angolo ø rispetto all'asse X, è rappresentata dalla lunghezza L del telescopio - vedi l'animazione):
Lsinø=v∆t   e   Lcosø=c∆t
dove ∆t è il tempo che impiega il raggio di luce a percorrere l'asse del telescopio; da cui segue immediatamente: tanø=sinø/cosø=v/c (cvd).
(**) Poiché, rispetto al sistema in quiete S0, il corpo non varia di velocità per effetto della radiazione assorbita, allora per coerenza anche nel sistema in moto S la velocità v non varia dopo l'assorbimento (varia solo la sua energia interna).
(***) In realtà il significato fisico dell'equivalenza massa-energia è molto più generale di quanto visto qui: come sappiamo anche la massa può viceversa trasformarsi in energia (ad esempio per annichilazione di una coppia particella/antiparticella); inoltre la formula vale anche per corpi in movimento (dove però la massa è quella relativistica).

lunedì 20 febbraio 2012

L'Equazione di Daniel Bernoulli

Partiamo dalla seguente illustrazione che rappresenta il tubo di flusso di un fluido ideale* in moto stazionario** (che sono due ipotesi fondamentali).

In figura è stata indicata la stessa quantità di massa elementare m (colorata in azzurro) in due punti diversi del tubo, rispettivamente di sezione A1 e A2 e di lunghezza ∆l1=v1∆t e ∆l2=v2∆t (dove v1 e v2 sono le velocità di spostamento dei due volumetti di fluido nel tempo ∆t); inoltre in figura p1 e p2 sono rispettivamente le pressioni esercitate sulle due sezioni elementari A1 e A2 (vedi Wikipedia):

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/20/BernoullisLawDerivationDiagram.svg

Ricordando che il lavoro fatto dalla pressione p sui due volumetti di fluido è pari a L=F∆l=pA∆l=pV (essendo la forza dovuta alla pressione F=pA e il volumetto dell'elemento uguale a V=A∆l) avremo che il lavoro LS (detto di superficie) compiuto sui due elementi del fluido è: 
LS=L1+L2=p1V1-p2V2 
dove il segno meno indica che la pressione -p2 è opposta a p1 (poiché il fluido del volume V2 frena quello di spinta del volume V1).
Nota: se il fluido è incomprimibile la densità ρ è costante, perciò se i due volumi V1=A1v1∆t e V2=A2v2∆t contengono la stessa massa m avremo: m=ρA1v1∆t=ρA2v2∆t da cui segue A1v1=A2v2 (equazione di continuità).

Inoltre in figura sono state indicate le due altezze h1 e h2 alle quali si trovano i due volumetti di fluido V1 e V2: se indichiamo con Fg=mg la forza gravitazionale a cui sono sottoposti i due elementi m di fluido (supponendo che l'accelerazione g sia costante in h), avremo che il lavoro LV (detto di volume) è dovuto alla variazione del potenziale gravitazionale ∆Ug con segno meno, cioè LV=-∆Ug=-mg∆h da cui segue (essendo ∆h=h2-h1):
LV=mgh1-mgh2.
Nota: sulla definizione di energia potenziale vedi il post "Energia potenziale<=>Forza conservativa".

Quindi se non agiscono altre forze sul sistema avremo, per il Teorema dell'energia cinetica (vedi il post "Il Teorema della 'Vis Viva'"), che il lavoro totale LS+LV è pari alla variazione ∆Ec di energia cinetica della massa elementare di fluido m: 
LS+LV=(1/2)mv22-(1/2)mv12
da cui segue per sostituzione e riordinamento:
p1V1+mgh1+(1/2)mv12=p2V2+mgh2+(1/2)mv22.

Infine supponendo che la densità ρ=m/V del fluido sia costante (un fluido ideale è incomprimibile), dividendo entrambi i membri per i volumi V1=V2=V (identici per l'equazione di continuità, vedi la nota sopra) segue l'equazione ricavata da Daniel Bernoulli nel 1738: 
p1+ρgh1+(1/2)ρv12=p2+ρgh2+(1/2)ρv22.
Nota: ricordiamo che nel caso di un fluido confinato (cioè v1=v2=0) per il Principio di Pascal una variazione di pressione ∆p=p2-p1 in un punto qualsiasi del fluido viene trasmessa identica ad ogni punto del contenitore.

In definitiva, poiché possiamo ripetere lo stesso ragionamento per qualsiasi elemento m del fluido, risulterà in generale:
p+ρgh+(1/2)ρv2=costante
ed essendo il fluido ideale la costante sarà la stessa per tutte le linee di flusso.

Si osservi infine che avendo definito LV=-∆Ug ed essendo come abbiamo visto LS+LV=∆Ec segue:
LS=∆(Ug+Ec).

Si noti che il lavoro di superficie LS=-V∆p (in modo analogo a LV=-mg∆h) è un lavoro conservativo***; infatti essendo il fluido ideale e il moto stazionario la variazione di pressione ∆p dipende solo dai due punti del fluido considerato (è cioè funzione della sola posizione); perciò possiamo scrivere LS=-∆Up=-V∆p (dove ∆Up è l'energia potenziale dovuta alle forze di pressione) e quindi dall'equazione precedente si ha:
∆(Ug+Up+Ec)=0.

Il significato fisico dell'equazione di Bernoulli è perciò analogo a quello del principio di conservazione dell'energia meccanica, dove ricordiamo risulta ∆(U+Ec)=0 (vedi il post "E se le forze non sono conservative?"); infatti nel caso del fluido ciò è ancora vero se poniamo per l'energia potenziale:
∆U=∆(Ug+Up).
Nota: in effetti il fluido è stato trattato come un sistema meccanico di particelle in moto, sottoposto a forze di pressione oltre a quella gravitazionale.

(*) Con fluido ideale si intende un fluido con le seguenti proprietà:
-> incomprimibile: la densità ρ=m/V è costante (quindi a parità di massa m il volume V non varia);
-> non viscoso: non si sviluppa attrito interno (e quindi non si ha dissipazione di energia);
-> irrotazionale: non c'è nessun elemento del fluido in rotazione attorno al proprio asse (perciò non ci sono energie rotazionali in gioco).
(**) Il moto di un fluido è considerato stazionario se, fissato un qualsiasi punto del fluido, le sue condizioni fisiche (come pressione, densità e velocità) non variano in funzione del tempo.
(***) In particolare nel caso statico (cioè v1=v2=0) l'equazione di Bernoulli diventa V∆p=-mg∆h che rappresenta la Legge di Stevino; possiamo scriverla anche nella forma differenziale Vdp/dh=-mg poiché dUp=Vdp è un differenziale esatto (essendo il campo delle forze di pressione conservativo). Ma ciò è vero anche nel caso del moto stazionario, infatti essendo d(p+ρgh+(1/2)ρv2)/dh=dp/dh+ρg=0 si ha di nuovo Vdp=-mgdh.
(Inoltre nel caso di un tubo orizzontale risulta h=costante e quindi avremo l'effetto Venturi: p+(1/2)ρv2=costante cioè la pressione esercitata da un fluido diminuisce all'aumentare della sua velocità e viceversa).

giovedì 9 febbraio 2012

Effetto Compton: onda o particella?

Definire l'effetto Compton è abbastanza semplice; detto in estrema sintesi "è un fenomeno di scattering interpretabile come l'urto tra un fotone e un elettrone"; in particolare "l'esperimento di Compton consiste nell'invio di un fascio collimato di fotoni (primario) su un bersaglio e nell'osservazione dello spettro dei fotoni diffusi" (vedi Wikipedia).

L'esperimento è stato ideato proprio per verificare come si comporta un fotone che interagisce con una particella elementare come l'elettrone; inoltre "il fenomeno, osservato per la prima volta da Arthur Compton nel 1922, divenne ben presto uno dei risultati sperimentali decisivi in favore della descrizione quantistica della radiazione elettromagnetica".
Nota: con descrizione quantistica della radiazione e.m. si intende in pratica "pensare ai fotoni come a particelle, dotate di una certa quantità di moto seppur prive di massa a riposo" (vedi Wikipedia).

In effetti basta osservare il seguente diagramma vettoriale delle componenti dei momenti di fotone ed elettrone, per capire come il fenomeno possa essere ben descritto supponendo un urto elastico tra due particelle relativistiche (vedi Wikipedia):
File:Compton scattering 600x225.png

Ora impostando "un sistema di equazioni che tenga conto della conservazione della quantità di moto e della conservazioni dell'energia si ottiene una formula che mette in relazione la differenza fra la lunghezza d'onda iniziale λ0 e finale λ del fotone con l'angolo di scattering ϕ":
∆λ=λ-λ0c(1-cosφ).
Perciò la variazione della lunghezza d'onda λ dipenda dall'angolo di scattering ϕ essendo λc=h/m0c una costante (detta lunghezza Compton).
Nota: per chiarimenti sull'esperimento vedi il post "Fisica, modelli, esperimenti e... realtà!".

A conferma di quanto dedotto teoricamente, una volta eseguito l'esperimento "quello che vide il fisico statunitense, fu che oltre all'emissione di fotoni alla stessa frequenza (che non venivano deflessi) vi erano raggi X di lunghezza d'onda maggiore in funzione dell'angolo di deflessione".
Nota: il fotone nell'urto viene deflesso, variando in parte la sua energia, ma non viene mai assorbito completamente per la conservazione della quantità di moto e dell'energia cinetica (avendo presupposto un urto elastico).

Tuttavia, nonostante questo esperimento mostri come il fotone possa essere trattato come una particella con quantità di moto p=h/λ ed energia E=pc, è possibile altresì spiegare l'effetto Compton dando una interpretazione ondulatoria del fenomeno tenendo conto dell'effetto Doppler relativistico (e della aberrazione della luce rispetto al laboratorio).

Infatti consideriamo, cambiando prospettiva, cosa accade rispetto al sistema di riferimento in cui l'elettrone si trova in quiete: dopo che l'elettrone è stato colpito dalla radiazione elettromagnetica, questo riemette l'onda alla stessa lunghezza d'onda.
Perciò quando l'elettrone è considerato in moto rispetto al laboratorio si deve tener conto della velocità v della sorgente/elettrone; da ciò segue che l'onda diffusa ha una lunghezza d'onda maggiore di quella incidente (poiché l'elettrone rincula) come indicato dall'esperimento Compton*.

In definitiva il significato fisico della duplice interpretazione dell'effetto Compton non è altro che una ulteriore conferma della natura sia ondulatoria che corpuscolare del quanto di luce, che tuttavia non porta a nessun paradosso sperimentale dato che tali comportamenti non sono osservabili contemporaneamente (vedi il post "Il dualismo onda-particella").
Nota: per l'introduzione del concetto fisico di fotone vedi il post "Un effetto Foto-elettrico!".

(*) Nel riferimento dove l'elettrone è posto in quiete, si può dimostrare che il fotone (prima e dopo l'urto) ha sempre la stessa lunghezza d'onda e l'angolo di incidenza è uguale a quello riflesso (secondo la legge di Snell); mentre l'effetto Doppler relativistico si applica nel riferimento in quiete col laboratorio, dove l'elettrone è in moto quando esso riflette l'onda rinculando e quindi la lunghezza d'onda aumenta (si deve inoltre tener conto dell'effetto di aberrazione della luce rispetto al laboratorio).
(Vedi: "The scattering of an electromagnetic wave by a free electron" di D.G. Ashworth e R.C. Jennison in J. Phys. A Vol.7 No.7, 1974, pag.803)